Biografia "storico-critica"
Silvano Gilardi nasce il 23 ottobre 1933 a Torino dove il padre Mario si è
trasferito dalla originaria Svizzera italiana per frequentare l’Accademia
Albertina e proseguire la lunghissima tradizione famigliare di pittore e restauratore.
Come i fratelli (Italo, Sandro e il più giovane e noto Piero) è
indotto fin dall’infanzia a fare, del disegno prima e della pittura poi,
un’abitudine quotidiana sempre suscettibile di miglioramenti tecnici e inventivi.
A 26 anni decide di operare in proprio come restauratore, sia in Piemonte che
in Ticino, ma ben presto sente la necessità, quasi l’inevitabilità,
di dedicarsi decisamente alla pittura. Quindi inizia l’attività espositiva
di grafica e pittura nella quale ben presto riscuote premi e successi: nel 1953
vince il prestigioso II° premio alla mostra del “Bianco e Nero”
di Torino, seguito dal I° a “Torino – Esposizioni” nel ‘56
e di nuovo il I° al “Bianco e Nero” del ‘61. Sovente invitato
a premi, concorsi, collettive, fiere e manifestazioni (quasi un centinaio nei
soli anni Sessanta) ha modo di farsi ulteriormente conoscere ed apprezzare, sia
in Italia che negli altri paesi europei, soprattutto in Olanda e in Germania,
poi in Francia e Inghilterra, mentre negli anni ‘70 e ‘80 anche in
Canada. Nei primi anni ‘60 partecipa con un gruppo di amici alla fondazione
del gruppo SURFANTA, che ha rappresentato la partecipazione attiva di certa pittura
italiana al grande movimento analogo del Neo-surrealismo allora presente in tutta
Europa. Significativa di questa posizione è la partecipazione del gruppo
ad una mostra itinerante in diverse città della Cecoslovacchia negli anni
immediatamente precedenti la Primavera di Praga. Silvano Gilardi - che assume
lo pseudonimo di ABACUC - si distingue per due componenti della sua pittura che
rimangono sempre costanti anche nelle seguenti evoluzioni stilistiche: in primo
luogo la “sapienza” tecnica – oltre alla “capacità”
– che non solo permette di offrire opere di notevole qualità (fatto
rimarcato, a volte con stupore, da tutti i suoi critici e biografi), ma soprattutto
rende visibile in una forma adeguata il “messaggio” contenuto nell’opera
(cioè la vera qualità tecnica come strumento da usare con disinvoltura,
e non mezzo per fare del vuoto virtuosismo). In secondo luogo già in questa
prima fase è evidente l’intenzione di evidenziare quella solenne
sacralità, la grandezza e la limpida chiarezza che sono proprie della Natura
e delle sue manifestazioni. Queste opere “fantastiche” e “surrealiste”
- ancora oggi apprezzate e richieste per la loro ricchezza di soluzioni pittoriche
di stuzzicante ironia e di fantasia inventiva – adombrano il rapporto fondamentale
di Gilardi con la spiritualità che si infonde nella realtà naturale,
che assumerà particolare evidenza nei periodi successivi del “figurativo”
e quindi dei “paesaggi”, iniziato nel 1975 con certo anticipo sulle
analoghe correnti pittoriche italiane. A quest’ultima serie segue quella
delle grandi “nature morte” (dal 1983): enormi mele, frutti, conchiglie
e chiari panneggi pulsano nella luce cristallina e sognante di spazi non definiti;
la realtà degli oggetti della Natura è più facilmente e intimamente
avvicinabile dei grandi paesaggi aperti, ma altrettanto coinvolgente e ricca di
“storie intime” da raccontare. Dopo pochi anni lo spazio si oscura
e la luce si condensa negli oggetti non sempre più riconoscibili nella
loro natura vegetale: vi aleggia un’atmosfera cupa, memore di certa pittura
antica che adombrava gli oggetti di complicati significati simbolici.
Sono questi gli anni di maggior successo di pubblico e di critica, nei quali le
pur meno frequenti ma selezionate esposizioni, stimolano un forte aumento della
richiesta di opere. Dopo dieci anni circa di attività frenetica interviene
una drammatica crisi: da una parte critici e mercanti sollecitano una produzione
sempre più abbondante e al limite del seriale, necessaria per ottenere
quel successo popolare al quale ambiscono, dall’altra l’artista si
sente sfruttato e si rende conto che aderendo a queste richieste dovrebbe per
forza limitare la qualità delle singole opere, come inevitabilmente accade
in tali circostanze.
In questo periodo diversi fatti coincidono a determinare alcune scelte nella vita
e nelle attività di Gilardi: l’abbandono di Torino e il ritorno in
Ticino, l’intensificazione e la specializzazione nel campo dei restauro,
lo studio attento e particolareggiato della pittura antica specialmente seicentesca
- dapprima attraverso alcune “copie” apparentemente fedelissime, ma
in effetti intelligentemente interpretate, poi con personali “invenzioni”
eseguite con tecnica magistrale e con forte, meditata concentrazione. Queste opere
non sono ancora state oggetto di un’esposizione organizzata, infatti oggi,
pur continuando saltuariamente l’attività espositiva e mantenendo
i contatti con il mondo dell’arte, la produzione di Gilardi è indirizzata
ai raggiungimento poetico e formale di un tale intimo equilibrio da escludere
quasi la finalità della vendita agire in una concentrazione e serenità
di ricerca non facilmente raggiungibili altrimenti.
Le eccezioni verificatesi sono dovute ad operazioni particolari, quali l’esposizione
effettuata in coincidenza con l’inaugurazione dei restauri all’antico
Castel Grande di Bellinzona (1992) nella quale sono state presentate diverse opere
tra disegni, acquerelli e dipinti sull’unico tema dell’ubicazione
geografica e antropica della “chiusa” fortificata: un esempio di fruttuosa
collaborazione tra uno storico e archeologo “committente” (il prof.
Pierangelo Donati) e un artista che aveva già accettato con entusiasmo
gli stimoli tematici e formali scaturiti dalle discussioni con amici esperti nel
campo dell’arte quali Maurizio Corgnati e Flavio Caroli, ovvero cimentandosi
con operazioni di rivisitazione di alcuni periodi storico artistici.
Ciò che conferisce dignità artistica e culturale a queste “non-copie”
dell'arte antica è non solo l’evidente esecuzione moderna del soggetto
- anche se con una tecnica raffinatissima desueta nella pittura attuale - ma soprattutto
il concetto di “interpretazione” di un tema prescelto, affine all'operazione
che compiono i musicisti ogni qual volta interpretano, appunto, alla luce della
visione contemporanea un qualche brano del passato: con fedeltà filologica
ma con spirito moderno e originalmente personale. Se dunque è concesso,
anzi richiesto, ai direttori e ai solisti di rivisitare con fedeltà sì,
ma soprattutto con originalità e sensibilità un brano musicale che
ha ancora molto da dire ai contemporanei, perché non potrebbe essere lo
stesso anche per la pittura?